mercoledì, dicembre 03, 2014

La tua cifra


Il tuo modo è la rabbia.
La rabbia di una vita che non va come vorresti.
La rabbia di non riuscire a spiegarti nemmeno con le persone che ti sono vicine.
La rabbia di apparire diverso da quello che pensi di essere.
La rabbia di non farcela.
La rabbia di volere ma anche la rabbia di non volere.
La rabbia di non trovare il modo di uscirne.
La rabbia di sapere che hai tanta rabbia dentro e non riesci a incanalarla.
Ferisci le persone.
Ferisci le persone che ti vogliono bene.
E non hai più nessuno cui affidare il tuo cuore.
Perché il cuore di un cane rabbioso non lo vuole  nessuno.


mercoledì, ottobre 29, 2014

Ciò che so dell'amore

Ho letto un libro d'amore, perché d'amore abbiamo tutti bisogno, perfino io che tutti mi dicono che sono una donna forte indipendente sicura di me, questo libro d'amore ha un titolo un po' pretestuoso per i miei gusti nonostante questo mi sono fidata dell'autrice e me lo sono letto: "L'amore è tutto (titolo): è tutto ciò che so dell'amore (sottotitolo, presumibilmente perché non è specificato e di fatto dopo i due punti il titolo continua)", già il titolo la dice lunga su ciò che sarà sviluppato all'interno, cioè il nulla, perché seppure sostiene che l'amore è tutto, non specificando nulla di quel tutto, il tutto rimane nulla, no? nel libro si parla in generale dell'amore, con pretese a tratti di esercizio filosofico, ma più che dell'amore provato, di quello che l'altro dovrebbe provare nei nostri confronti, come lo dovrebbe provare, quanto ci può dare in autostima il fatto che un altro ci ami, quanti quintali di solitudine ci sono da mettere in un rapporto di coppia di due che non hanno figli, quanta pazienza ci vuole ad amare noi donne con un carattere stratosfericamente cazzuto, rompipalle e anche egotico...ecco, quanta pazienza ci vuole? quanto la pazienza ha a che fare con l'amore? io mi rendo conto che ho sviluppato una dose di pazienza infinita dopo l'arrivo dei figli e che però non sempre sono disposta/disponibile a metterla anche nel rapporto di coppia, magari nel rapporto di coppia ci va qualcos'altro, ci va progettualità, interessi comuni, sesso, passione...in tutto questo per la pazienza e la sopportazione c'è poco spazio a mio parere, ora tutti diranno invece che perché un amore duri ci vuole pazienza e sopportazione ma io credo che se c'è sopportazione non c'è più scambio non c'è mutualità non c'è comunanza c'è solo fatica e la fatica mina alla base il rapporto se non è supportata da soddisfazione...ecco in breve questo è ciò che io so dell'amore e poi c'è una cosa che proprio non mi va giù e che presta adito a diverse contraddizioni nel libro - secondo me - ed è che da un lato l'autrice sostiene che quando si ama non si capisce, il cuore batte forte forte le farfalle sono nello stomaco etc, e poi teorizza che la scelta dell'oggetto amoroso avviene nella direzione di una corrispondenza di ciò che abbiamo perso da bambini, cioè cerchiamo tutto quello che abbiamo perso troppo presto e vorremmo ritrovare, ma io non ci sto e credo che l'amore non sia tutto, che l'amore sia un pezzo sicuramente importante ma non tutto e mi spingo a dire che l'amore che diventa tutto diventa malato ed esclusivo, come una cosa che si guarda da vicino senza occhiali (i miopi mi capiranno) e che sembra enorme mentre invece è minuscola... l'amore secondo me è un pezzo del tutto ed è mutevole fragile e da coltivare e poco ha a che fare con l'oggetto amato dell'infanzia e soprattutto non è solo uno e per concludere sulla falsa riga di Michela Marzano, l'amore è tutto ciò che ci separa dall'infanzia è ciò che ci fa adulti ciò che ci fa da lente per guardare e interpretare il mondo ma non può essere definito sulla base negativa della ricerca di una perdita.

giovedì, ottobre 09, 2014

L'impazienza del qui e ora

mi commuovo al travaglio di un cuore
sull'orlo del burrone
quando sta per cadere nell'ignoto
si farà male o
si impiglierà in un ramo a sorreggerlo
con le farfalle nella pancia 
tese a spiccare il volo
nell'ineluttabile impazienza 
del qui e ora

martedì, ottobre 07, 2014

Del sopportare sette anni di sfiga.

"Forse alla fine sono semplicemente un CODARDO", ha detto e quanti ce ne sono e che cosa significa essere un codardo? questa è la domanda che mi si insinua nel cervello probabilmente ha a che fare con una questione di coda, che un cane tiene bassa se ha paura boh io non me ne intendo di animali il dizionario Treccani lo definisce così un codardo: "di persona che, per viltà, evita di affrontare rischi o pericoli" e di per sé non ci sarebbe niente di male nell'evitare di affrontare rischi e pericoli, tenere il culo o la coda al caldo è sicuramente una decisione propizia in certi frangenti quindi mi domando dov'è che si trasformi in accezione negativa perché la parola "codardo" ha sicuramente un'accezione negativa, tanto più se uno se la dice da solo quasi in segno di resa all'impossibilità di agire nello sprezzo del pericolo o alla paura delle conseguenze, ma riflettendoci bene chi agisce nello sprezzo del pericolo è un EROE e non è cosa per tutti essere un eroe quindi tutto sommato darsi del codardo non è poi così grave in un ottica universalistica, certo io son codardo ma quanti altri lo sono! quindi non è un'attitudine così spregevole, siamo in tanti, in tanti che non riusciamo a prendere in mano le nostre vite e io perché dovrei essere peggio di un altro? in questo caso darsi del codardo significa giustificarsi platealmente - hai visto quanti siamo? - rendere meno penosa l'evidenza di quello che sentiamo all'interno di noi stessi perché ci hanno sempre insegnato che essere/fare l'eroe della storia è la parte più prestigiosa, più ricca di contenuti, di colpi di scena, di climax avventurosi, e questo cozza con la codardia, ma di fatto se codardi siamo in tanti e uno solo è l'eroe, tant pis, tanto peggio come dicono i francesi, non è che casca il mondo anzi ci sono più chance di cavarsela di rimanere a galla di non farsi prendere da una freccia in pieno petto visto che - se siamo codardi e non eroi - non saremo mai in prima fila e questo è un grande ALIBI altrimenti come lo vogliamo chiamare come comportamento? mi viene in mente solo alibi, una "motivazione che giustifica o discolpa" (Treccani) e quindi alla fine si torna all'inizio e cioè che la codardia è una automotivazione che giustifica o discolpa da un gesto che non siamo stati capaci di fare, da una decisione che non siamo stati capaci di prendere, da uno strappo che non siamo stati in grado di ricucire: "sono semplicemente un codardo" è una frase che ci fa sentire meglio, che paradossalmente ci dà ancora la forza di guardarci allo specchio che non si spaccherà nemmeno nel rifletterci perché se non siamo eroi, non siamo nemmeno in grado di sopportare sette anni di sfiga.

venerdì, settembre 26, 2014

Sull'orlo delle lacrime di felicità

Il luogo è un matrimonio. Quello di mia madre e mio padre. Il tempo è quarantotto anni fa. Il fatto è una foto. Di quelle con una minuscola cornice bianca, 23x18 cm, lucida, perfettamente a fuoco in ogni suo dettaglio. Di quelle che sono perse nella marea di foto. Che non meritano una pagina dell'album. Che non sono fatte con gente in posa. Quelle foto che il fotografo sicuramente considerava bucate. Oggi non le stamperebbero nemmeno. Cinquant'anni fa invece devono averla messa nel mucchio. Io l'ho ritrovata del tutto casualmente. I suoi colori erano sgargianti, in contrasto col b/n di tutte le altre, brillanti i colori dei vestiti, della tovaglia rosa, lo sbrilluccichìo dei bicchieri. Ed il soggetto era incredibilmente prezioso. Era il tavolo della famiglia della sposa. Mia madre e mio padre erano in piedi. Papà con il cesto dei confetti in mano. Mia madre china alle spalle di mia zia. Sorella tanto amata. Ho fatto un calcolo che in quella foto aveva 31 anni. Da già quasi dieci era malata di sclerosi multipla. Era in carrozzina al tavolo. Aveva perso l'uso delle gambe. Ma era al matrimonio della sorella. Con un raffinatissimo tailleur di shantung celeste e la spilla di turchesi e oro. L'immancabile spilla delle donne di casa mia. Ma tutto questo, l'esserci al matrimonio di una sorella e l'essere elegante, per chiunque potrebbe essere una cosa ovvia e banale. Io so che dietro a quella presenza c'era l'amore di una famiglia che non si è fatta annichilire da una malattia così invalidante e ha costruito la sua quotidianità e la sua routine su di essa senza esitare un attimo. Per essere lì quel giorno del '66, mia zia aveva dovuto essere portata a spalla per le scale dal 5° piano, probabilmente caricata in macchina almeno un paio di volte per andare in chiesa e poi al ricevimento. E nella foto è seduta al tavolo. Mia madre la cinge da dietro. Lei ha la testa leggermente reclinata all'indietro, come per appoggiarsi al braccio di mamma cercando di guardarla. E lo scatto immortala il momento in cui a mia zia sale il singhiozzo della commozione, quello che scatenerebbe il fiume di lacrime se non fosse trattenuto. E mia madre sorride a consolarla, facendosi prendere la mano. Un sorriso dolcissimo. E sorride mio padre col cesto di confetti. E sorride l'altra sorella, che le carezza l'avambraccio come a sostenerla. E' come l'istantanea di tanto amore. Che c'è stato intorno a questa persona così speciale, in un periodo in cui una malattia del genere non aveva le speranze di confort, palliazione e durata che ha oggi. Capitata ad una ragazza di 23 anni che aveva tutta la vita davanti. Ad una famiglia di donne che avevano perso padre e marito prestissimo. Che si sono rimboccate le maniche di fronte alla vita. Perché la sofferenza e il dolore, se condivisi, li fanno più sostenibili e li trasformano in energia positiva. E quel sorriso di mia madre nella foto era il sorriso che lei aveva sempre, la sua forza. Il sorriso con cui la sua vita e quella della sua famiglia sono state vissute. Quello che ha trasmesso a mio padre. Un sorriso denso di vita. Quello che ha insegnato a noi. Quello che io mi prendo come eredità. E oggi questa foto sull'orlo delle lacrime di felicità me la tengo nel cuore. Fuori da tutti gli stereotipi delle foto di matrimoni.

mercoledì, giugno 04, 2014

Il peso specifico dei desideri

Pensavo che si arriva ad un punto in cui si fanno bilanci, anche se la bilancia ci dice che dovremmo pensare ad altro, ad estrofletterci dal cervello che tanto spazio occupa del nostro tempo, mi piacerebbe assai non pensare, astrarmi dai miei neuroni ma pare che ciò non sia possibile in quanto l'assenza di attività cerebrale denoterebbe morte in atto e in realtà io non desidero morire vorrei assentarmi, fisicamente e mentalmente da questo mondo presente per buttarmi a quattro di bastoni in un senza tempo sbilanciato in cui la mia ciccia i miei occhi ipovedenti, i miei capelli indomabili  i miei iperattivi neuroni non avessero più alcun peso e valessero come il due di bastoni quando regna coppe e non è nemmeno una questione di stanchezza fisica perché a quella c'è sempre rimedio si tratta piuttosto di un'iperattività mentale del tutto inconcludente che comincia a diventare un peso e la bilancia misura proprio questo ma non ho ancora capito cosa ci dovrei mettere sopra se la mia capoccia, il mio culone oppure una bustina con i miei desideri rischiando che perdano miseramente di consistenza rispetto a materia di cotanto peso ma mi balena alla mente una reminiscenza liceale, il calcolo del peso specifico, inversamente proporzionale al volume, cioè più un oggetto è grande - a parità di peso - e minore è il suo peso specifico quindi c'è la speranza che una cosa piccoletta abbia un alto peso specifico e mi interessa proseguire per questo ragionamento nella direzione che analizza la questione del peso dei miei desideri che sulla bilancia virtuale potrebbe essere magicamente enorme per un volume piccolo piccolo che li contiene, lo spazio del minuscolo cervello che ho in testa o volendo quello dell'organo pulsante che ho nel petto e mi sa che la bilancia virtuale dei miei desideri sta tentando di dirmi che il loro peso specifico potrebbe superare di gran lunga quello del mio cervello o del mio cuore. Forse dovrei ascoltarla.

lunedì, maggio 19, 2014

Brandelli di vita. Ma nel senso positivo.

Ritornare alle proprie origini è sempre un momento di passaggio e al contempo un approdo molto combattuto. Border line tra lacrime e sorrisi. E le lacrime non sono sempre per cose tristi, ma spesso per momenti felici che tieni dentro con nostalgia, o racconti che non hai vissuto ma che qualcuno custodisce con un affetto inimmaginato. La vita prende senso in questi brandelli di vita che qualcuno, altro da te, tiene dentro di sé, brandelli di tuo padre, tua madre, i tuoi nonni, i tuoi zii. I brandelli nobili, quelli che ricostruiscono una personalità, una nobiltà d'animo, una generosità, un'umanità che pensavi di custodire solo nel tuo cuore, ma di cui hanno beneficiato tantissime persone che con immutato affetto ne trattengono traccia nel loro cuore. E ogni volta si aggiunge un brandello. Allora non è un caso se ieri, mentre viaggiavo a destinazione di un paese nel nord del Lazio, il paese di mio padre, da lui immensamente amato, difeso, sempre abbracciato nei suoi pensieri opere e opinioni, mentre viaggiavo mi scendevano piccole lacrime di tenerezza. Quella tenerezza che si ha per l'amore, per le cose amate da chi si ama, non so se rende l'idea, ma è un concetto che io ho ben chiaro, tenerezza mitigata dal ricordo, dalle immagini nella testa e nel cuore, che mi porto dietro e dentro da una vita. Seppure la vita spesso ci separi, anche per ragioni inspiegabili, dai luoghi e dalle persone che amiamo, ieri ho capito che ci sono sentimenti che vanno oltre questa distanza. Sentimenti che è giusto coltivare e se non lo fai, se non rendi loro omaggio alla fine di una vita sei un traditore, sei un disumano, sei niente, hai vissuto invano. E' un concetto che mi risulta difficile da chiarire maggiormente. Diciamo che ieri qualcuno mi ha parlato di questi tradimenti. Ma ho anche (ri)scoperto cose che mi hanno fatto bene al cuore. E sono partita da lì con l'ulteriore certezza che mio padre fosse un grand'uomo, se ancora adesso, a distanza di tredici anni dalla sua morte, tante persone si ricordano di lui con parole di calore enorme e abbracci di autentica commozione. E tutto, intorno, ha più senso.

mercoledì, maggio 14, 2014

Taglio netto. E preciso.

Il mio cervello attualmente è impegnato in una serie di riflessioni sul virtuale. Quello stesso virtuale che si interseca con il reale. Con la vita di tutti i giorni. Quel virtuale che, grazie alla presenza di un pollice opponibile, ti consente di essere in collegamento con centinaia di persone che non vedi, non vedresti e non vedrai nella tua realtà di tutti i giorni. Con quelle informazioni mordi e fuggi che contraddicono in toto la tua passione per gli studi, per l'approfondimento, per le migliaia di libri che hai letto. Quelle informazioni che remano contro i cinque libri che hai sul comodino. Quelli che hai iniziato e da un po' di tempo non riesci più a terminare. Quel mordi e fuggi che provoca gelosia per un like sul post di qualcuno. Che ti fa sentire più o meno importante a seconda della popolarità che hai. E questo lo dico pur essendo io una persona "popular" nella vita reale. Una che ama stare al centro dell'attenzione. Una che sa sempre cosa dire quando è in mezzo alla gente, pur amando follemente il silenzio. Questa schizofrenia della presenza, questo sapere tutto di tutto/tutti, perché con un click googli chiunque, diventa sempre più assenza di vita. Nella mia testa almeno. Non conta più quello che sei, quello che vuoi, quello che sogni. Ma è tutto trasposto in una vita parallela. Dove raggiungi qualsiasi cosa e diventi sicuro di essa in cinque secondi. Quando per studiare Platone io ci ho messo tre anni, il primo che arriva ne sa immediatamente più di me; mentre quando fai un commento articolato senza citare siti, ma scrivendo solo parole che derivano dai tuoi studi, dalle tue conoscenze, che hai elaborato nel corso degli anni e fatto tue e sono diventate parte del tuo modo di pensare, di guardare il mondo, di analizzare e affrontare gli eventi, quel commento articolato viene immediatamente riportato al livello di saccenteria, del che cazzo ne sai tu su wikipedia c'è scritto altro. Nella vita reale una persona così io non la guardo più nemmeno. Nel virtuale queste persone si possono ignorare, si possono defolloware, si possono bannare. Ma rimane un senso di impotenza, una mancanza di riconoscimento, una ferita (virtuale anch'essa?) che rende questa schizofrenia dei rapporti portatrice di infelicità e inadeguatezza. Parlo per me ovviamente, e per il momento storico che sto vivendo. E' come se questo livellamento di conoscenze rendesse inutile tutto il percorso che ho fatto finora. 
Forse, per risolvere la questione, dovrei tagliarmi il pollice opponibile. 

mercoledì, febbraio 05, 2014

All you can eat is happyness, papparapapa.

Passerò ad argomenti più futili sempre con uno sguardo al sociale, tipo la crisi che in questo momento ci sega i portafogli, e mi soffermo volentieri sulla nuova espressione utilizzata da un caro amico colto e viveur che con non-chalance ieri sera a telefono mentre mi aspettava a Piazza Bologna ché io ero sotto il fuoco nemico del tappo automobilistico ad anta chilometri lontano da lui mentre avrei dovuto invece essere a farmi coccolare tra le sue braccione, il mio amico viveur - dicevo - a telefono, per accelerare il mio arrivo, ha snocciolato quattro paroline magiche che mi hanno aperto un mondo e fatto realizzare in un batter baleno che ciò che io avevo sempre pensato essere un low cost del cibo era invece molto più trendymente la moda attuale della magnata, dello scofanamento assoluto, il paradiso per noi insaziabili editori umani e mi ha portato altresì a tutta una serie di considerazioni culi-socio-psico-narie che hanno fatto di me una donna più ricca intellettualmente, più erudita, più consapevole e soprattutto più grassa nello spazio di due ore; più grassa di così si muore e no! se posso enunciare il principio primo dell'eat all you can - queste sono le quattro paroline magiche delle quali io conoscevo il principio pur non avendo mai sentito questo termine così ben descrittivo - è esattamente quello per cui mangiando tutto quello che ti entra nella pancia senza che possa penetrarvi più nemmeno uno spillo pagando sempre la stessa cifra (relativamente poco e comunque sempre immensamente di meno che pagare una per una tutte le portate ingerite), quel principio è che con lo EAYC non si muore, siore e siori sono ancora qui per dimostrarvelo infatti stamattina direi che dopo non aver fatto colazione ho addirittura un leggero gorgoglìo di stomaco al quale sto cercando di non pensare ma che persiste nonostante ieri sera io abbia fagocitato l'equivalente di una cena per dieci commensali ed altrettanto ha fatto il mio amico il quale peraltro alla fine aveva come un senso di spossatezza leggera, mentre io qualche altra cosetta avrei sicuramente ingollato; il secondo principio è che all'udire che si può ordinare qualsiasi cosa, la parola tutto diventa la nostra bibbia, la nostra nuova religione che per un ateo equivale ad un redde rationem immediato sul campo ebbene da ieri io ho una nuova religione quella del mangio tutto; il terzo principio è quello che le possibilità umane sono e restano completamente sconosciute fino al giorno in cui ti siedi all'EAYC della tua tipologia di ristorante preferito (per me il giapponese), e mentre sei lì raggiungi parecchi gradi di felicità inversamente proporzionale al prezzo pagato per averla, il che traduce il nostro principio con all'EAYC puoi acquistare a due lire la felicità perché non traslocare lì dentro per sempre? tutti sarebbero più rilassati, il tempo non passerebbe più così velocemente, saremmo tutti più sorridenti complici anche due bottiglie di birra da 75cl, diciamo che la filosofia di questo EAYC mi sembra un po' la metafora di quello che tutti desidereremmo dalla nostra società, pagare il giusto per avere tantissimo, quel tantissimo giusto che ci faccia dire oh come sono felice, infatti l'amico mio mi diceva: "ma io pensavo che stessi una chiavica - lui pur essendo di formazione aulica parla così - e invece sei in gran forma" e certo che sono in gran forma sono nel mio ristorante preferito e posso mangiare tutto quello che mi passa per lo- schiribizzo-del-cervello-e-oltre, sono in gran forma, sì in gran forma rotonda!

*nda: i neologismi creati in questo post sono di proprietà assoluta di me medesima. Qualora voleste appropriarvene dovrete commisurare l'equivalente di almeno un EAYC a me stessa medesima. Grazie.

lunedì, febbraio 03, 2014

Democrazia à la carte

Pensavo, no, a cosa direbbero i Padri della Patria, della nostra Patria martoriata e offesa da ingiurie,  incontenibili esternazioni di cultura pressapochista che insulta le donne, i vecchi, la storia e la cultura. In tutte le culture degli umani la vecchiaia significa esperienza. Da noi è diventato sinonimo di approfittarsi delle situazioni e di sopruso. Quindi un vecchio nella sua vita ha solo sfruttato, goduto di privilegi, scroccato. Non è un coacervo di esperienza vissuta, di errori, di saggezze, di incontri, di libri letti e cultura macinata, no. Una donna è un buco da scopare, da fottere, da ingroppare e anche uccidere se capita. Un essere immondo che assurge a simbolo di tutte le perversioni degli umani perché perversa lei per prima che si fa fottere provando magari piacere. Quindi il massimo dell'offesa è che non sia scopabile, visto che a lei piace tanto. Anni di cultura e storia della parità dei diritti buttati al cesso (e non è un eufemismo) perché nel momento di crisi sociale, politica ed economica si distruggono i simboli di una cultura per rinascere a nuova (?) vita. Questa distruzione dei simboli io la conosco storicamente. Non è nuova a molte rivoluzioni contro le tirannie. Quel che è nuovo, secondo me, è la rivoluzione contro la democrazia. La democrazia per definizione si combatte dal suo interno, è fatta di contrasti, di dialogo, di opposizione, ma dà per scontato l'accordo su quello che decide la maggioranza. Se non si è d'accordo con la maggioranza si è sconfitti. Punto. Sconfitti e scontenti. Ma si deve accettare. Sappiamo tutti che il mondo è pieno di stronzi. Basta una democratica riunione di condominio per capirlo. E se non si è d'accordo con quello che decide la maggioranza che si fa? Si tagliano i fili della corrente degli altri condomini? E la democrazia si fa con leggi condivise, con prassi attestata, anche con cavilli, perché sono procedure che il consesso sociale si è dato quando ha adottato questa forma di governo. Ché poi ci sono morte parecchie persone per ottenerla. Ma solo i vecchi hanno studiato la storia, perdendo un sacco di tempo, gente che proprio non ha fatto mai niente in vita sua. Siamo al punto che uno che dedica la sua vita allo studio ha perso tempo. Ciò che sa, che conosce, che ha elaborato, non conta nulla. Qui siamo al punto che l'unica verità e l'unica informazione sono quelle veicolate dalla rete, spesso senza fonti certe. Mi piacerebbe sapere quanta gente conosce i regolamenti parlamentari. Credo pochi. I più si fidano dell'informazione che viene diffusa sul fatto che un certo strumento viene utilizzato solo al Senato e non alla Camera, per prendere un esempio recente. Senza andare oltre, senza conoscere le regole di un consesso democratico, che sia il parlamento, la riunione di condominio o la cooperativa. Questo pressappochismo della conoscenza fa paura e porta a distorsioni terribili che sfociano nel populismo di protesta fine a se stesso. Gli italiani, si sa, hanno bisogno del leader. Quando al governo non c'è una carismatica figura lederistica, lo sfortunato di turno viene trattato come uno con le palle mosce, come un mortadella e non oso immaginare se fosse una donna (abbiamo del resto visto la culona inchiavabile della Merkel). Allora beccatevi un Renzi, un Grillo o addirittura ancora un Berlusconi, se siete veramente sfigati. Io mi tengo la mia indignazione per i roghi di libri, per gli insulti sessisti e per la negazione della saggezza della vecchiaia e il mio amore per la cultura. E mi oriento sempre più in maniera significativa - seppur con dolore - verso il non voto.

giovedì, gennaio 23, 2014

Metaforicamente parlando, forse è tutto lì dove dovrebbe essere

Oggi ho perso l'anello di mia madre col rubino, quello con la fascia in maglia d'oro, quello che più che essere prezioso mi ricordava lei, che lo portava al mignolo e allora il sangue mi ha dato alla testa non c'ho capito più niente perché è vero che sono solo cose ma certe volte le cose evocano molto più del bene che sono e ho cominciato a cercare, a frugare dovunque a mettere a soqquadro tutte le mie cose, a cercare di ricordare dove diavolo potessi averlo messo con questa testa piena di pensieri vorticosi su tutto e su tutte le cose che mi stanno accadendo talmente piena che vedo un segno in ogni avvenimento che avrei strangolato a mani nude l'usciere del comune quando stamattina non mi ha fatto entrare a fare la dichiarazione che non avevo ricevuto la tarsu da pagare che scadrebbe domani e che siccome ho una coscienza civica voglio pagare prima che scada ma qui gli uffici pubblici quando sono aperti il pomeriggio non lo sono la mattina e intanto il pensiero dell'anello mi tagliava il respiro e ho inveito contro tutta la gerarchia comunale per quegli stupidi turni e volevo fare come fece mio padre quando gli impedirono di parlare col direttore della banca, mio padre - un metro e 90 stazza parecchio robusta - si sedette su una sedia all'ora di chiusura dicendo che non si spostava fino a che non gli avessero fatto arrivare davanti il direttore in persona e nessun altro e veramente non  si spostò e questo episodio diventò mitologico nella fenomenologia di casa mia, mio padre e la sua epica occupazione assursero a paradigma di come si fanno rispettare i propri diritti pur non essendo certo mio padre un rivoluzionario ma giusto un onesto borghese di origine contadina, ecco io volevo imitarlo occupando il comune del mio stupido paese fino a che non mi si fosse presentato davanti il sindaco in persona che in realtà non sono certa sia ancora a piede libero quindi l'azione non avrebbe sicuramente avuto il giusto rilievo indi per cui ho rapidamente calcolato di uscire semplicemente sbattendo la porta sulla faccia dell'usciere, che vita grama e soprattutto quanto umore condizionato tutto sommato da una stupidaggine come perdere un anello ma in quel momento quell'anello era tutta la mia vita, quella che ho smarrito quella che non riesco a ritrovare quel bandolo che mi sfugge via senza che io possa fare niente per recuperarla se non cercare di sviscerarne le ragioni cercare di mettere su un piatto quello che c'è, quello che non va, i pezzi che si possono mettere insieme e quelli irrecuperabili, l'anello è diventato per un paio d'ore il simbolo di tutte le mie frustrazioni del mio sangue che ribolle del mio umore fumino delle mie speranze deluse e poi tutto d'un tratto ricompare come se avesse voluto mettermi alla prova come se avesse voluto farmi uno scherzo quegli stessi scherzi che io faccio alle mie figlie ma dove avrete messo le figurine cui tenete tanto? oddio mamma le abbiamo perse ecco la disperazione nei loro occhi proprio come la mia, durante la frenetica ricerca, lo sproloquio, l'imprecazione assoluta...ho ritrovato l'anello e ho avuto un guizzo al cuore, era dove doveva essere forse metafora di tutto il resto.