Il cielo qui in campagna oggi è blu.
Mi sono ricordata di quando partivo col sacco in spalla per lunghissimi week-end di lacrime a Venezia. Oggi c'è il carnevale, in quella città di acqua e chiese. Andavo in giro da sola, a piangere le mie delusioni, con ventimila lire in tasca, a mangiare pesce e guardare tristi camerieri in livrea, che servivano l'ennesimo fritto scadente. Era quasi vent'anni fa. Le speranze erano diverse, ma io la stessa sognatrice. Ogni volta, dopo una delusione, partivo. Forte del fatto che non mi conosceva nessuno. Del fatto che entravo come in un limbo, dove tutto era consentito. Potevo aggirarmi nei vicoli senza essere pettinata o entrare in un pub senza sembrare una puttana. Entrare in un museo senza essere colta o in un ristorante senza essere bulimica. Il mio luogo preferito era il Peggy Guggenheim Museum, una miniatura di raffinatezza costruito in un angolo di solitario paradiso terrestre. Pochissimi visitatori ed un'atmosfera familiare con delle pietre miliari della pittura accidentalmente appese al muro invece di essere custodite in cassaforte. Mi ha sempre colpito quell'atmosfera così privata, che mi faceva sembrare un'intrusa, introducendomi in quella casa opulenta e talmente kitch da sembrare veramente abitata. Ed io andavo lì, a passare ore a guardare i turisti che lanciavano gridolini di meraviglia ad ogni stanza o i vaporetti passare dalla terrazza a picco sul Canal Grande. Sotto la pioggia o sotto il sole, ore ed ore. E sebbene negli anni cambiassero la posizione dei mobili e la disposizione delle sale, a parte un principio di delusione per non aver ritrovato le cose come le avevo lasciate, mi sembrava quasi di conoscere la mano che provvedeva a quelle piccole rivoluzioni, di amarla come fosse la mia, di avere quasi il diritto di sdraiarmi sul suo stesso letto, offerto alla pubblica curiosità in quelle mura pur così nascoste.
Oggi queste sensazioni mi sono ritornate in mente, improvvisamente, splendenti come il sole che c'è fuori, per darmi ancora un brivido.
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