In questo blog, che da molti anni accompagna la mia vita, mi sono trovata più volte a discutere di perdita del lavoro. Anche noi ultraquarantenni siamo una generazione di precari. Noi che non abbiamo vinto concorsi, noi che per i casi della vita abbiamo cambiato più volte lavoro, anche contenti di farlo per certi versi, noi che vorremmo essere trattati come professionisti, noi che abbiamo un sacco di competenze, perfino noi, che siamo così forti, abbiamo maturato un senso di smarrimento. Perché invece non siamo né carne né pesce. Ecco io oggi abbasso le armi. In un mondo che non considera il merito ma solo il tornaconto, una persona come me che lavora con competenza e passione viene fatta fuori perché la competenza e la passione non interessano a nessuno. Non fanno vincere, né guadagnare. Sono accessori pressoché inutili. Il prodotto non conta niente. E io - per quanto impalpabile sia quello che produco, poiché attiene più direttamente alla sfera dell'elaborazione concettuale che a quella di una roba che puoi tenere in mano -, il mio prodotto lo faccio con cura, competenza e passione. Diciamo che oggi mi sento come un operaio qualificato rimandato a casa ma non perché il suo lavoro non va bene, ma perché non serve più che lo faccia. Semplicemente. E il tutto condito da complimenti, tipo ah come hai lavorato bene, sei stata fondamentale, però grazie e arrivederci. E la filosofia del precario consapevole pare che sia diventata quella che bisogna lavorare bene e fino alla fine del contratto. Perché poi troverai qualcos'altro per altrettanto poco tempo che ti lascerà col culo per terra in meno tempo che non si dica e dovrai sempre avere l'orgoglio precario di dire sono un libero professionista, libero di andare e venire, più di andare che di venire. Io di questo cosiddetto orgoglio precario me ne frego. Io vorrei solo che funzionasse il principio che quando sei lavoratore precario, se lavori bene puoi continuare a lavorare. Che se anche non ti rinnovano il contratto nel posto in cui stai per x ragioni, appena esci fuori ne hai già un altro pronto. Allora e solo allora si potrà parlare di flessibilità. Non mi frega di avere un contratto per la vita. Io voglio poter lavorare. Voglio poter produrre. E questo, invece, mi pare che non interessi più a nessuno.
domenica, giugno 24, 2012
lunedì, giugno 04, 2012
Il menarca del 2000.
Le mie riflessioni sulla maternità rischiano di essere muffite vista la frequenza con cui ne scrivo attualmente sul blog. Dopo inizi scintillanti - all'epoca faceva tanto figo parlare di gestione dissennata di pargoli - adesso mi ritrovo con una quasi ottenne già in crisi preadolescenziale e una gigantessa di 5 anni che piange per qualsiasi affermazione possa sentire come anche solo vagamente lesiva della sua dignità. C'è da fare una premessa, il cui contenuto mi si è fatto sempre più lucido davanti agli occhi, e cioè che pare che io sia come una gatta, nel senso che mi faccio i cavoli miei e ogni tanto torno a riscuotere qualche coccola. Di base una su cui non si può contare. E se è vero che i bambini percepiscono tutto, le mie avranno chiara in mente questa cosa e sapranno cavarsela in ogni momento. Visto che mamma gatta ha insegnato loro a leccarsi ben bene le ferite.
Detto questo, ritornerei a bomba su riflessioni più attinenti all'essere madre in questo decadente inizio di XXI secolo. E' evidente che noi quarantenni del secolo scorso, che abbiamo sviluppato a undici anni, ci troviamo di fronte, dopo trent'anni, bambine assai più sveglie di come eravamo noi, senza peli sulla lingua, senza freni e assai disinibite. Quindi, secondo me, potremmo pure essere di fronte ad un comportamento preadolescenziale di bambina di otto anni che proietta sui genitori - e in particolare sulla madre - le insoddisfazioni e le frustrazioni di un corpo da bambina in una mente da quasi adulta. Obiettivamente non mi sono ancora documentata sulle crisi preadolescenziali, pensavo di dover aspettare ancora un po'. Ma certo è che i tempi sembrano accelerati ed io, che ancora sto godendo di non dover più cambiare pannolini, dovrò forse presto cominciare a comprarne di altro tipo per la mia pargoletta. E soprattutto mi viene in mente la mia crisi preadolescenziale, che si è prolungata nell'adolescenza e poi nella giovinezza e poi nell'adultità e di cui ancora oggi sento il peso (si lo so, magari qualche capatina da un bravo psy non sarebbe male, ma continuo a rimandare, e ora questa storia della gatta mi ha convinto che non serve più). Devo assolutamente correre ai ripari, prima che anche la frignona di cinque anni cominci a piantarmi cartelli in giardino con rivendicazioni identitarie che non potrò più arginare.
Un consiglio, bambine mie: siate gatte come la mamma. Lei ci ha messo tanto a capire che questa era la formula ideale mentre voi potreste trarne già da adesso tutti i benefici possibili.
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