Ebbene, siamo ancora tutti quanti qui a cantare braccobaldosciò.
So che avete temuto il peggio.
Ed effettivamente non siete tanto lontani dalla verità.
Il pronto soccorso ha avuto ragione di me e delle mie pene (ovviamente ogni riferimento sessuale è sempre puramente casuale).
Immaginate la scena più grottesca cui si potrebbe assistere andando al pronto soccorso per il problema di cui nei passati post.
Una strafiga con la panza, senza un filo di trucco e con un'incredibile sofferenza in corpo che si para al pronto soccorso ginecologico. La dottoressa che la visita, non più giovanissima (e quindi si presuppone con una discreta esperienza), grida quasi di orrore alla vista di tale scempio. Ed è talmente insicura della sua diagnosi che chiede un consulto al chirurgo del pronto soccorso.
Al pronto soccorso, la suddetta strafiga si trova di fronte il giorge cluny de' noantri, bello che più bello non si può, che la apostrofa dicendo: "Vediamo allora queste emorroidi".
Ammetetelo. E' da caduta del mondo addosso.
Anche perché subito dopo aggiunge: "Si stenda sul fianco sinistro". E tu cominci a spogliarti con meticolosità. Quella meticolosità che nasconde lo sforzo immane che fanno le tue dita ad arrivare ai lacci delle scarpe, con la pancia che fa da scudo. Ma col pensiero che in un altro contesto...magari...una donna incinta può essere attraente. Anche per giorge.
E lui che dice: "Non c'è mica bisogno che si spogli. Basta che si tiri giù le mutande e si metta sul fianco sinistro. Al resto ci penso io."
Ammettetelo. Qualsiasi donna ha desiderato almeno una volta nella vita che giorge le dicesse ciò.
Ma poche si sono trovate nella situazione in cui persino l'infermiera grida alla vista di quell'orrore, anche se l'esplorazione del medico non dura più di tre secondi. Con i guanti per giunta.
La situazione è tragica. Per i tanti motivi sopra esposti. Ma il medico è sicuro che guarirò.
Allora torno a casa.
Carica di medicine. Ad affrontare la polvere che l'operaio ha fatto per dipingere la stanza delle mie figlie.
Consolati con l'aglietto, si dice sempre a Roma.
mercoledì, febbraio 28, 2007
giovedì, febbraio 22, 2007
Non ce la faccio a pensare
No, non ce la faccio a scrivere su quello che è successo ieri.
Vi rimando al post di un mio esimio commentatore, ABS detto anche cesto di corna, che però questa volta ha incornato bene bene il succo del problema: http://prostata.blogspot.com/2007/02/tanto-gli-ridaranno-la-fiducia-e.html
Quel post, in realtà, gliel'ho dettato io, via telegrafo senza fili. Non me ne voglia per lo sputtanamento.
No, non ce la faccio proprio ad aggiornarvi sulle mie disgrazie.
Ma qui vi dico: non è l'ombelico il centro del mondo.
No, non ce la faccio proprio a pensare che un bimbo ha mandato una lettera al corriere della sera per chiedere ai ladri di restituirgli la bicicletta che gli avevano rubato e ha ricevuto in cambio un sacco di biciclette da italiani compresi nella sua sofferenza. Fa strano che ad una lettera indirizzata ad un ladro, rispondano italiani in massa....
No, non ce la faccio a pensare che ho appena pagato l'ultima rata della monnezza e presto arriverà la prima rata nuova. Dovrebbero pagare me, per la fatica che faccio: anzitutto produrla; poi stockarla (si dice?) o meglio conservarla fino a che è piena, nella corretta divisione di materiali; poi scendere due piani di scale a piedi; caricarla in macchina dove c'è posto; accendere la macchina che non sempre parte (ulteriore consumo di carburante); partire e fare la ripidissima discesa che mi separa dalla strada asfaltata; percorrere i 300 metri di strada che mi separano dai secchioni; scendere dalla macchina, con la pioggia, il vento e più raramente il sole (quando si butta la monnezza piove inevitabilmente) e suddividere la monnezza nei suoi differenziati contenitori. E quel che più conta è che so che non ha per nulla un destino certo. Mentre una cosa è certa: con tutta la fatica che faccio, è me che dovrebbero pagare.
No, non ce la faccio a pensare che non ho nulla nel frigo né la forza per andare a fare la spesa. Dovrei stare meglio al pensiero di non spendere quella quarantina di euro che mi permetterebbero di stare tranquilla fino a lunedì mattina. Eppure qualcosa mi dice che sarebbe meglio trovare una rapida soluzione. E en passant osservo che, anche senza cibo, si produce sempre monnezza.
E però mi dico che in fondo, al contrario dei nostri governanti, io le responsabilità che mi sono assunta le rispetterò. Mi rialzerò da questo calvario di dolore, tentennerò fino alla porta con quei quattro sacchi pieni di roba morta, ce la farò, sì, ce la farò ad arrivare fino a quel catorcio della mia macchina, andrò a prendere mia figlia all'asilo e poi forse un etto di mortadella dall'alimentari. Fino a stasera. Fino a che i nei di Vespa riempiranno il mio televisore. E allora sì che potrò smettere di pensare. Per sempre.
Vi rimando al post di un mio esimio commentatore, ABS detto anche cesto di corna, che però questa volta ha incornato bene bene il succo del problema: http://prostata.blogspot.com/2007/02/tanto-gli-ridaranno-la-fiducia-e.html
Quel post, in realtà, gliel'ho dettato io, via telegrafo senza fili. Non me ne voglia per lo sputtanamento.
No, non ce la faccio proprio ad aggiornarvi sulle mie disgrazie.
Ma qui vi dico: non è l'ombelico il centro del mondo.
No, non ce la faccio proprio a pensare che un bimbo ha mandato una lettera al corriere della sera per chiedere ai ladri di restituirgli la bicicletta che gli avevano rubato e ha ricevuto in cambio un sacco di biciclette da italiani compresi nella sua sofferenza. Fa strano che ad una lettera indirizzata ad un ladro, rispondano italiani in massa....
No, non ce la faccio a pensare che ho appena pagato l'ultima rata della monnezza e presto arriverà la prima rata nuova. Dovrebbero pagare me, per la fatica che faccio: anzitutto produrla; poi stockarla (si dice?) o meglio conservarla fino a che è piena, nella corretta divisione di materiali; poi scendere due piani di scale a piedi; caricarla in macchina dove c'è posto; accendere la macchina che non sempre parte (ulteriore consumo di carburante); partire e fare la ripidissima discesa che mi separa dalla strada asfaltata; percorrere i 300 metri di strada che mi separano dai secchioni; scendere dalla macchina, con la pioggia, il vento e più raramente il sole (quando si butta la monnezza piove inevitabilmente) e suddividere la monnezza nei suoi differenziati contenitori. E quel che più conta è che so che non ha per nulla un destino certo. Mentre una cosa è certa: con tutta la fatica che faccio, è me che dovrebbero pagare.
No, non ce la faccio a pensare che non ho nulla nel frigo né la forza per andare a fare la spesa. Dovrei stare meglio al pensiero di non spendere quella quarantina di euro che mi permetterebbero di stare tranquilla fino a lunedì mattina. Eppure qualcosa mi dice che sarebbe meglio trovare una rapida soluzione. E en passant osservo che, anche senza cibo, si produce sempre monnezza.
E però mi dico che in fondo, al contrario dei nostri governanti, io le responsabilità che mi sono assunta le rispetterò. Mi rialzerò da questo calvario di dolore, tentennerò fino alla porta con quei quattro sacchi pieni di roba morta, ce la farò, sì, ce la farò ad arrivare fino a quel catorcio della mia macchina, andrò a prendere mia figlia all'asilo e poi forse un etto di mortadella dall'alimentari. Fino a stasera. Fino a che i nei di Vespa riempiranno il mio televisore. E allora sì che potrò smettere di pensare. Per sempre.
mercoledì, febbraio 21, 2007
Risvegli
1h35. 1h45. 2h00. 2h15. 2h30. 2h45.....
Non sono numeri al lotto.
Non sono gli orari della corriera che ferma qui sotto.
E nemmeno gli orari di risveglio di mia figlia nel cuore della notte.
No, signore e signori.
Questi sono i miei orari.
Gli orari del risveglio notturno. Ai confini del periodico (e del paranormale - aggiungerei senza tema di smentita). Del risveglio notturno MIO.
Condito dai russi di mio marito e mia figlia.
Con le loro beate bocche spalancate.
La mia bocca era spalancata solo di dolore.
Quel dolore intenso e puntuto nel frammezzo delle terga, così tipico delle donne gravide, che dà la dimensione di come potrebbe essere bello implorare la morte. Come sollievo intendo.
Non che in questo istante vada meglio, ma intanto ora riesco a respirare.
Ancora una volta, la dietologa, con le sue infauste previsioni ha colpito ancora!
"Ma non ce le hai le emorroidi?"
"No, per fortuna no, sarà che mi ha fatto bene dimagrire prima della gravidanza" - rispondo piena di belle speranze.
E zac. Colpita e affondata.
La maledizione di Montezuma in confronto è acqua fresca.
Mi ritiro a meditare sul mio stato psicofisico, ché sarà meglio.
Non sono numeri al lotto.
Non sono gli orari della corriera che ferma qui sotto.
E nemmeno gli orari di risveglio di mia figlia nel cuore della notte.
No, signore e signori.
Questi sono i miei orari.
Gli orari del risveglio notturno. Ai confini del periodico (e del paranormale - aggiungerei senza tema di smentita). Del risveglio notturno MIO.
Condito dai russi di mio marito e mia figlia.
Con le loro beate bocche spalancate.
La mia bocca era spalancata solo di dolore.
Quel dolore intenso e puntuto nel frammezzo delle terga, così tipico delle donne gravide, che dà la dimensione di come potrebbe essere bello implorare la morte. Come sollievo intendo.
Non che in questo istante vada meglio, ma intanto ora riesco a respirare.
Ancora una volta, la dietologa, con le sue infauste previsioni ha colpito ancora!
"Ma non ce le hai le emorroidi?"
"No, per fortuna no, sarà che mi ha fatto bene dimagrire prima della gravidanza" - rispondo piena di belle speranze.
E zac. Colpita e affondata.
La maledizione di Montezuma in confronto è acqua fresca.
Mi ritiro a meditare sul mio stato psicofisico, ché sarà meglio.
lunedì, febbraio 19, 2007
Noi e gli altri
Mi serve a raccolta tutta la saggezza del mondo. Se ancora ve n'è.
Il contesto è quello dell'asilo. E più precisamente la festa carnascialesca che si organizza in ogni consesso infantile umano che si rispetti, e non solo in questa nostra occidentale società dei consumi.
Partiamo da qui: la geniale direttrice dell'asilo di mia figlia ha sbagliato data per indire la festa di carnevale. Giovedì 22 febbraio carnevale sarebbe finito. Qualcuno glielo deve aver fatto notare, per cui si è premurata di spostare la data a martedì 20 febbraio, ultimo giorno di carnevale, il famoso martedì grasso. I nostri piccoli di belle speranze dovranno mascherarsi per la loro e la nostra gioia e divertirsi tutti insieme, mi raccomando senza coriandoli che si infilano dappertutto, però perché no qualche bomboletta di schiuma da barba sarà la benvenuta. Tutto ciò ha l'aria di essere semplice e lineare come bere un bicchier d'acqua. Lasciando da parte le difficoltà che tutti viviamo per decidere come mascherare il nostro pargolo, ma questo è ovviamente un problema nostro e non dell'asilo e poi non è obbligatorio mascherare i bambini cioè se tu non hai la maschera se non vuoi se non te ne frega niente oppure te lo dimentichi, nessuno ti frusterà o ti additerà come mostro o irrispettoso delle tradizioni o qualsiasi altro irripetibile epiteto. Su questo mi pare si sia tutti abbastanza d'accordo.
Pochi però sanno che c'è qualcuno che per principi religiosi non festeggia compleanni, carnevali, né altre feste in genere. Nell'asilo di mia figlia è presente una bimba che viene da una famiglia di testimoni di geova, i quali, per l'appunto, non festeggiano. E quindi nemmeno i loro figli. Io non voglio qui entrare nel merito della questione religiosa. Non me ne frega proprio un bel niente. Ognuno è libero di credere in quello che più gli pare e piace.
Ora, però, come potrete immaginare, la situazione non è così semplice. Perché cosa succede?
La mamma di codesta bambina prende il giovedì 22 febbraio di ferie, per tenere a casa la figliola e non partecipare alla festa. Liberissima, direte voi.
Poi la direttrice sposta la data a martedì 20, presumo che la madre della bambina le faccia un cazziatone del tipo io mi sono presa un giorno di ferie non potete spostare le feste come vi pare e piace. E la direttrice risposta di nuovo la festa a giovedì 22, quando carnevale è finito e i nostri bambini andranno a scuola mascherati perché la mamma di una bambina testimone di geova non ha voluto (o anche potuto, ma non è questo il punto) cambiare il suo giorno di ferie. Ora, a raccontarlo non sembra neanche vero.
E tra parentesi a me non è che interessi particolarmente il fatto che il carnevale sia finito. Io ci vado sempre in giro con la mia maschera. Qui, mi sembra, la questione è più delicata.
E' giusto che in venti si debba spostare una festa per non farvi assistere una persona?
Non so nemmeno più se c'entri il rispetto religioso, perché allora i genitori di qualche bambino appartenente a famiglie di cattolici praticanti ( che tra l'altro sono sensibilmente superiori in numero a quelle dei testimoni di geova) potrebbero altrettanto risentirsi e dire che no, il loro pargolo non viene mascherato a scuola quando il carnevale è finito.
La questione, secondo me è più sottile. Diciamo che una persona che gestisce un asilo (e non una macelleria o una cartoleria o una qualsiasi altra attività a contatto col pubblico, badate bene) fa un errore abbastanza madornale e non sa come uscirne se non restando sulle sue decisioni. Diciamocelo, che senso ha una festa di carnevale a carnevale finito?
Poi mi dico che in realtà la festa ha senso solo per noi adulti, per le nostre convenzioni, perché i bambini se ne fregano che oggi sia lunedì e domani martedì. Semplicemente vivono l'attimo.
Una cosa però penso, e sarei abbastanza convinta: se una persona vive i suoi principi religiosi in una società laica (e anche, perché no, in una struttura laica quale tra l'altro è l'asilo di mia figlia) lo deve fare nel rispetto degli altri. Punto. E questo è sempre molto difficile. Soprattutto se si pretende di essere rispettati senza rispettare.
Anche se mi rimangono sempre molti dubbi.
Magari la direttrice ha fatto bene a non contrariare la madre che pretendeva rispetto per i suoi principi e si è mostrata intransigente a spostare il suo giorno di ferie o eventualmente a far venire all'asilo la figlia semplicemente non mascherata.
Mi sa che questo è solo l'inizio di tutto ciò che mi aspetterà nel percorso scolare di mia figlia....
Il contesto è quello dell'asilo. E più precisamente la festa carnascialesca che si organizza in ogni consesso infantile umano che si rispetti, e non solo in questa nostra occidentale società dei consumi.
Partiamo da qui: la geniale direttrice dell'asilo di mia figlia ha sbagliato data per indire la festa di carnevale. Giovedì 22 febbraio carnevale sarebbe finito. Qualcuno glielo deve aver fatto notare, per cui si è premurata di spostare la data a martedì 20 febbraio, ultimo giorno di carnevale, il famoso martedì grasso. I nostri piccoli di belle speranze dovranno mascherarsi per la loro e la nostra gioia e divertirsi tutti insieme, mi raccomando senza coriandoli che si infilano dappertutto, però perché no qualche bomboletta di schiuma da barba sarà la benvenuta. Tutto ciò ha l'aria di essere semplice e lineare come bere un bicchier d'acqua. Lasciando da parte le difficoltà che tutti viviamo per decidere come mascherare il nostro pargolo, ma questo è ovviamente un problema nostro e non dell'asilo e poi non è obbligatorio mascherare i bambini cioè se tu non hai la maschera se non vuoi se non te ne frega niente oppure te lo dimentichi, nessuno ti frusterà o ti additerà come mostro o irrispettoso delle tradizioni o qualsiasi altro irripetibile epiteto. Su questo mi pare si sia tutti abbastanza d'accordo.
Pochi però sanno che c'è qualcuno che per principi religiosi non festeggia compleanni, carnevali, né altre feste in genere. Nell'asilo di mia figlia è presente una bimba che viene da una famiglia di testimoni di geova, i quali, per l'appunto, non festeggiano. E quindi nemmeno i loro figli. Io non voglio qui entrare nel merito della questione religiosa. Non me ne frega proprio un bel niente. Ognuno è libero di credere in quello che più gli pare e piace.
Ora, però, come potrete immaginare, la situazione non è così semplice. Perché cosa succede?
La mamma di codesta bambina prende il giovedì 22 febbraio di ferie, per tenere a casa la figliola e non partecipare alla festa. Liberissima, direte voi.
Poi la direttrice sposta la data a martedì 20, presumo che la madre della bambina le faccia un cazziatone del tipo io mi sono presa un giorno di ferie non potete spostare le feste come vi pare e piace. E la direttrice risposta di nuovo la festa a giovedì 22, quando carnevale è finito e i nostri bambini andranno a scuola mascherati perché la mamma di una bambina testimone di geova non ha voluto (o anche potuto, ma non è questo il punto) cambiare il suo giorno di ferie. Ora, a raccontarlo non sembra neanche vero.
E tra parentesi a me non è che interessi particolarmente il fatto che il carnevale sia finito. Io ci vado sempre in giro con la mia maschera. Qui, mi sembra, la questione è più delicata.
E' giusto che in venti si debba spostare una festa per non farvi assistere una persona?
Non so nemmeno più se c'entri il rispetto religioso, perché allora i genitori di qualche bambino appartenente a famiglie di cattolici praticanti ( che tra l'altro sono sensibilmente superiori in numero a quelle dei testimoni di geova) potrebbero altrettanto risentirsi e dire che no, il loro pargolo non viene mascherato a scuola quando il carnevale è finito.
La questione, secondo me è più sottile. Diciamo che una persona che gestisce un asilo (e non una macelleria o una cartoleria o una qualsiasi altra attività a contatto col pubblico, badate bene) fa un errore abbastanza madornale e non sa come uscirne se non restando sulle sue decisioni. Diciamocelo, che senso ha una festa di carnevale a carnevale finito?
Poi mi dico che in realtà la festa ha senso solo per noi adulti, per le nostre convenzioni, perché i bambini se ne fregano che oggi sia lunedì e domani martedì. Semplicemente vivono l'attimo.
Una cosa però penso, e sarei abbastanza convinta: se una persona vive i suoi principi religiosi in una società laica (e anche, perché no, in una struttura laica quale tra l'altro è l'asilo di mia figlia) lo deve fare nel rispetto degli altri. Punto. E questo è sempre molto difficile. Soprattutto se si pretende di essere rispettati senza rispettare.
Anche se mi rimangono sempre molti dubbi.
Magari la direttrice ha fatto bene a non contrariare la madre che pretendeva rispetto per i suoi principi e si è mostrata intransigente a spostare il suo giorno di ferie o eventualmente a far venire all'asilo la figlia semplicemente non mascherata.
Mi sa che questo è solo l'inizio di tutto ciò che mi aspetterà nel percorso scolare di mia figlia....
giovedì, febbraio 15, 2007
Mai hiusband tichis tu mi
Ore 21h30: lezioni di html.
Ebbene sì, signore e signori, alla tenera età di 37 e dico 37 primavere, mi sono rimessa sulla piastra.
E non per essere mangiata, pur essendoci molta carne all'uopo.
Mi sono rimessa ad imparare.
Qualcosa che pare essere un'irrinunciabile priorità in questo mondo di hyper-technology nel quale viviamo.
Insomma, mai hiusband è notoriamente un geek. Perché se lo chiamo nerd s'offende e allora diamo pane al pane e vino al geek [spero di non urtare la tua sensibilità! ;-)].
E allora, qual geek, ha una missione: evangelizzare il volgo. E nella fattispecie il volgo a lui più prossimo: io.
Io ho cercato di essere all'altezza. Di fare sempre sì con la testa. Di fare occhi intelligenti e non da pesce provolone.
Ad onor di cronaca, gli avevo proposto una serata sotto le lenzuola dopo la nostra parca cena cinese. La sua controproposta ha vinto di netto (e ancora mi sto chiedendo perché).
Di questa romantica serata mi rimane l'incredibile scoperta che anche il più demente minus habens degli esseri umani può concepire un codice html (mai hiusband ha ammesso, nonché elaborato personalmente, questo concetto, il che mi scagiona ufficialmente da ogni critica...). Basta smanettare e fare tentativi.
Mentre io pensavo servisse una testa speciale, non so, un qualcosa di geniale nei neuroni che ti permettesse di restare davanti ad uno schermo per ore senza perdere la testa né la ragione, né - tutto sommato - troppi neuroni.
Mi rimane anche un file html.
Di una semplicità imbarazzante nella sua struttura.
Perché ho anche scoperto che tre sono le cose fondamentali da fare, per creare un html: un inizio, un centro e una fine.
L'html come metafora della vita?
Questa sì che è una lezione. Una lezione da non dimenticare.
Tutte le cose finiscono.
Ma è molto meglio sapere come!
Ebbene sì, signore e signori, alla tenera età di 37 e dico 37 primavere, mi sono rimessa sulla piastra.
E non per essere mangiata, pur essendoci molta carne all'uopo.
Mi sono rimessa ad imparare.
Qualcosa che pare essere un'irrinunciabile priorità in questo mondo di hyper-technology nel quale viviamo.
Insomma, mai hiusband è notoriamente un geek. Perché se lo chiamo nerd s'offende e allora diamo pane al pane e vino al geek [spero di non urtare la tua sensibilità! ;-)].
E allora, qual geek, ha una missione: evangelizzare il volgo. E nella fattispecie il volgo a lui più prossimo: io.
Io ho cercato di essere all'altezza. Di fare sempre sì con la testa. Di fare occhi intelligenti e non da pesce provolone.
Ad onor di cronaca, gli avevo proposto una serata sotto le lenzuola dopo la nostra parca cena cinese. La sua controproposta ha vinto di netto (e ancora mi sto chiedendo perché).
Di questa romantica serata mi rimane l'incredibile scoperta che anche il più demente minus habens degli esseri umani può concepire un codice html (mai hiusband ha ammesso, nonché elaborato personalmente, questo concetto, il che mi scagiona ufficialmente da ogni critica...). Basta smanettare e fare tentativi.
Mentre io pensavo servisse una testa speciale, non so, un qualcosa di geniale nei neuroni che ti permettesse di restare davanti ad uno schermo per ore senza perdere la testa né la ragione, né - tutto sommato - troppi neuroni.
Mi rimane anche un file html.
Di una semplicità imbarazzante nella sua struttura.
Perché ho anche scoperto che tre sono le cose fondamentali da fare, per creare un html: un inizio, un centro e una fine.
L'html come metafora della vita?
Questa sì che è una lezione. Una lezione da non dimenticare.
Tutte le cose finiscono.
Ma è molto meglio sapere come!
lunedì, febbraio 12, 2007
La matta
Ebbene, signore, signori, vi sarà pur capitato, almeno una volta nella vita di trovarvi davanti agli occhi un fantasma!
Non parlo dei vostri sognetti più o meno erotici, più o meno emozionali, più o meno dovuti alla rimozione della realtà.
No, qui io parlo di un fantasma in carne ed ossa.
Di quelli del passato.
Di quelli che ti trovi davanti nel momento in assoluto meno indicato, o nel momento di rilassatezza totale, o addirittura in quello di spossatezza leggera del sabato sera, quello che stai bestemmiando che non trovi parcheggio nel quartiere più popoloso di vecchi poltroni e ristoranti, in cui il sabato la gente sta a casa o viene al ristorante o ti cacciano dai parcheggi dell'AMA perché a fine turno devono rimetterci "il mezzo".
Ebbene, signore, signori, è questo che mi sono trovata davanti sabato sera, nella prima sera di libera uscita dell'anno 2007. Custodita la piccina dalla nonna, mangiato carciofi alla giudìa (2.5 a testa con effetto devastante per l'intestino) ma pur sempre VIVI, io e la mia dolce metà ci siamo avviati al dopocena (erano aaaanni che non andavo ad un dopocena!) organizzato a casa dell'amico D.
Io mi guardo in giro cercando un buco per la nostra vettura e mi ritrovo puntati addosso - o meglio, credo più sul finestrino che direttamente nelle mie pupille, ma poco importa, la sensazione che ho avuto è quella di perforazione acuta - gli occhi di una matta.
Ma non era una matta qualsiasi. Era un fantasma del passato, che ritornava prepotentemente alla superficie e che, incredibilmente, riguardava in qualche modo anche l'amico D., che - ignaro di tutto - stava preparando un luculliano buffet a metà tra il transgenico delle frappe e il bio-salutistico del risolatte.
Sarete d'accordo con me che gli occhi di una matta non si possono dimenticare. Che il tempo cambia tutto, ma non gli occhi di una matta.
E questa è la matta per eccellenza. Quella che si incontra una volta nella vita. Di cui si continuano a narrare e mitizzare le gesta. Quella che rifonda - per il solo esistere nei nostri ricordi - la nostra identità di persone NORMALI.
Ebbene brevemente della matta vi dirò che:
- parlava con una mezza patata in bocca. E approfittando della parziale inintellegibilità di quello che diceva, sono sicura che dicesse una massa di cazzate. Anche se nessuno ha mai saputo esattamente ricavare un senso da quelle lettere che uscivano dalla sua bocca rimestandosi tra loro.
- era brutta un po' come uno spaventapasseri ma anche forte come lui, nonostante a più riprese minacciasse il suicidio per intimorirci e farci colpevolizzare (e oggi scopro che - evidentemente - non l'ha mai attuato!).
- tentò di farci credere di aver dato la sua verginità al fruttivendolo della piazza sotto casa. E questo per farci un po' pena, che lei - ricca ereditiera - non se la filava nessuno e doveva ricorrere al fruttivendolo per saziare i suoi bollori. Nessuno le credette mai, indipendentemente dal fatto che il fruttivendolo fosse bello o brutto. La realtà è che era follemente innamorata dell'amico D., e tentava di farlo ingelosire, nonostante lui la trattasse come si può trattare una tenda trasparente, cioè non vedendola.
- ha tentato una volta il suicidio davanti a noi. 100 all'ora sulla macchina del padre di D., laddove era D. alla guida, ella, l'essere con la patata in bocca, aprì ( o tentò di aprire, ma nella leggenda è tramandato che la aprì, e io stessa, che ero presente, non saprei dire cosa successe veramente) la portiera posteriore. Ovviamente fu sommersa da una gragnuola di botte, tanto che le sarebbe ampiamente convenuto riuscire nel suo intento. L'amico D., dopo quell'evento, colse la palla al balzo per non rivolgerle mai più la parola.
- una volta ha pisciato, sì certo potrei dire con più grazia ha fatto pipì, oppure ha urinato o anche solo ha fatto quella liquida, ma userò proprio la parola pisciato, nella MIA macchina, sedile anteriore della mia gloriosa Renault 5. E questo solo perché non riusciva a trattenersi, non poteva, chessò, uscire e farla in strada o in un bar, no, doveva farla sul mio sedile anteriore. E questo fatto, chiaramente, fu la mia colta di palla per non rivolgerle mai più la parola.
Ora, tutto questo accadeva all'incirca vent'anni fa. Eravamo giòvani e di belle speranze. Desiderosi di aiutare il nostro prossimo. Di accollarci il triste destino di una donna con la patata in bocca (e ogni allusione che voi possiate cogliere come sessuale è ASSOLUTAMENTE casuale). Anche se presto - e a nostre spese - capimmo che di destino basta già quello nostro personale.
Epperò, voglio dire, all'amico D. resta una bella sfiga dallo splendido destino che si è creato con gli anni: quello di abitare nella stessa strada della matta con la patata in bocca. Che c'ha pure tutte le fortune dei matti: in vent'anni è rimasta assolutamente identica e anche, pur non avendoci io parlato, la forma della bocca con la patata è rimasta la stessa. Mentre in vent'anni l'amico D. ha perso chili, capelli e neuroni a go-go.
Per quanto riguarda me, l'acqua che è passata sotto i ponti in vent'anni ha le proporzioni di un tevere in piena. E allora la prendo a ridere. Anche se, certo, gli occhi di una matta ti si conficcano dentro. Non senza una certa pena.
Non parlo dei vostri sognetti più o meno erotici, più o meno emozionali, più o meno dovuti alla rimozione della realtà.
No, qui io parlo di un fantasma in carne ed ossa.
Di quelli del passato.
Di quelli che ti trovi davanti nel momento in assoluto meno indicato, o nel momento di rilassatezza totale, o addirittura in quello di spossatezza leggera del sabato sera, quello che stai bestemmiando che non trovi parcheggio nel quartiere più popoloso di vecchi poltroni e ristoranti, in cui il sabato la gente sta a casa o viene al ristorante o ti cacciano dai parcheggi dell'AMA perché a fine turno devono rimetterci "il mezzo".
Ebbene, signore, signori, è questo che mi sono trovata davanti sabato sera, nella prima sera di libera uscita dell'anno 2007. Custodita la piccina dalla nonna, mangiato carciofi alla giudìa (2.5 a testa con effetto devastante per l'intestino) ma pur sempre VIVI, io e la mia dolce metà ci siamo avviati al dopocena (erano aaaanni che non andavo ad un dopocena!) organizzato a casa dell'amico D.
Io mi guardo in giro cercando un buco per la nostra vettura e mi ritrovo puntati addosso - o meglio, credo più sul finestrino che direttamente nelle mie pupille, ma poco importa, la sensazione che ho avuto è quella di perforazione acuta - gli occhi di una matta.
Ma non era una matta qualsiasi. Era un fantasma del passato, che ritornava prepotentemente alla superficie e che, incredibilmente, riguardava in qualche modo anche l'amico D., che - ignaro di tutto - stava preparando un luculliano buffet a metà tra il transgenico delle frappe e il bio-salutistico del risolatte.
Sarete d'accordo con me che gli occhi di una matta non si possono dimenticare. Che il tempo cambia tutto, ma non gli occhi di una matta.
E questa è la matta per eccellenza. Quella che si incontra una volta nella vita. Di cui si continuano a narrare e mitizzare le gesta. Quella che rifonda - per il solo esistere nei nostri ricordi - la nostra identità di persone NORMALI.
Ebbene brevemente della matta vi dirò che:
- parlava con una mezza patata in bocca. E approfittando della parziale inintellegibilità di quello che diceva, sono sicura che dicesse una massa di cazzate. Anche se nessuno ha mai saputo esattamente ricavare un senso da quelle lettere che uscivano dalla sua bocca rimestandosi tra loro.
- era brutta un po' come uno spaventapasseri ma anche forte come lui, nonostante a più riprese minacciasse il suicidio per intimorirci e farci colpevolizzare (e oggi scopro che - evidentemente - non l'ha mai attuato!).
- tentò di farci credere di aver dato la sua verginità al fruttivendolo della piazza sotto casa. E questo per farci un po' pena, che lei - ricca ereditiera - non se la filava nessuno e doveva ricorrere al fruttivendolo per saziare i suoi bollori. Nessuno le credette mai, indipendentemente dal fatto che il fruttivendolo fosse bello o brutto. La realtà è che era follemente innamorata dell'amico D., e tentava di farlo ingelosire, nonostante lui la trattasse come si può trattare una tenda trasparente, cioè non vedendola.
- ha tentato una volta il suicidio davanti a noi. 100 all'ora sulla macchina del padre di D., laddove era D. alla guida, ella, l'essere con la patata in bocca, aprì ( o tentò di aprire, ma nella leggenda è tramandato che la aprì, e io stessa, che ero presente, non saprei dire cosa successe veramente) la portiera posteriore. Ovviamente fu sommersa da una gragnuola di botte, tanto che le sarebbe ampiamente convenuto riuscire nel suo intento. L'amico D., dopo quell'evento, colse la palla al balzo per non rivolgerle mai più la parola.
- una volta ha pisciato, sì certo potrei dire con più grazia ha fatto pipì, oppure ha urinato o anche solo ha fatto quella liquida, ma userò proprio la parola pisciato, nella MIA macchina, sedile anteriore della mia gloriosa Renault 5. E questo solo perché non riusciva a trattenersi, non poteva, chessò, uscire e farla in strada o in un bar, no, doveva farla sul mio sedile anteriore. E questo fatto, chiaramente, fu la mia colta di palla per non rivolgerle mai più la parola.
Ora, tutto questo accadeva all'incirca vent'anni fa. Eravamo giòvani e di belle speranze. Desiderosi di aiutare il nostro prossimo. Di accollarci il triste destino di una donna con la patata in bocca (e ogni allusione che voi possiate cogliere come sessuale è ASSOLUTAMENTE casuale). Anche se presto - e a nostre spese - capimmo che di destino basta già quello nostro personale.
Epperò, voglio dire, all'amico D. resta una bella sfiga dallo splendido destino che si è creato con gli anni: quello di abitare nella stessa strada della matta con la patata in bocca. Che c'ha pure tutte le fortune dei matti: in vent'anni è rimasta assolutamente identica e anche, pur non avendoci io parlato, la forma della bocca con la patata è rimasta la stessa. Mentre in vent'anni l'amico D. ha perso chili, capelli e neuroni a go-go.
Per quanto riguarda me, l'acqua che è passata sotto i ponti in vent'anni ha le proporzioni di un tevere in piena. E allora la prendo a ridere. Anche se, certo, gli occhi di una matta ti si conficcano dentro. Non senza una certa pena.
venerdì, febbraio 09, 2007
Oggi è successo che...
....non posso andare più ai funerali. Piango come un coccodrillo anche se non conosco il morto.
....non posso più andare al supermercato. Ormai mi riconoscono tutti. Controllo sempre lo scontrino e c'è sempre qualcosa di sbagliato. E io pretendo la restituzione immediata dei soldi.
....ho di nuovo sbagliato film. Ho scambiato un film di Mel Brooks per un film di Altman. E il risultato è stato - ovviamente - alquanto deludente.
....ho odiato intensamente l'avvocato scassamaroni. Perché mi ha instillato un dubbio: "E come farai per la cameretta delle bambine?" - ha detto con quell'arietta da santarellina.
....non posso più andare al supermercato. Ormai mi riconoscono tutti. Controllo sempre lo scontrino e c'è sempre qualcosa di sbagliato. E io pretendo la restituzione immediata dei soldi.
....ho di nuovo sbagliato film. Ho scambiato un film di Mel Brooks per un film di Altman. E il risultato è stato - ovviamente - alquanto deludente.
....ho odiato intensamente l'avvocato scassamaroni. Perché mi ha instillato un dubbio: "E come farai per la cameretta delle bambine?" - ha detto con quell'arietta da santarellina.
mercoledì, febbraio 07, 2007
La disperazione delle casalinghe
E' finita.
La seconda serie, intendo.
Anche se non ci sono stati i titoli di coda.
Per noi poveracci che non possediamo sky, è finita ieri sera la disperazione delle casalinghe.
E' finita con un mega-riassunto. Con il racconto dell'arrivo di ognuna delle protagoniste nel ridente fazzoletto di terra dove ancora abitano. Parallelismi tra il giorno dell'arrivo e il giorno presente. Tentativi di ringiovanire attrici di una quattordicina d'anni. Non facile, ammettiamolo.
Ma, insomma, ecco, ci hanno lasciato semi per lo sviluppo futuro. Come predica ogni corso di sceneggiatura che si rispetti.
E adesso passerà un anno ancora, prima che possiamo rivedere le nostre eroine, un po' sfigate - ammettiamolo, ma pur sempre così affascinanti.
E mi piace perché sono veramente disperate. Senza una direzione. Senza un senso. Senza qualcuno che le aiuti nel momento di difficoltà.
Eppure così umane. Così come noi. Oddio, certo molto più attraenti. Ma questo fa parte del gioco.
Così sempre senza un uomo eppure così scopabili.
Così sempre piene di pacchi della spesa eppure sempre a cena fuori.
Così amiche l'una dell'altra eppure così invidiose.
Così sempre a mangiare grossi vasi di gelato, eppur sempre così magre.
Così occupate ché nella loro cucina non c'è mai un capello fuori posto. Il petto di pollo non sporca la loro macchina del gas. Forse il loro pollo non ha nemmeno le ali.
Ma io ho sempre desiderato una cucina come quella che anche la più sfigata e senza un soldo ha. Pulita come uno specchio. Col bancone al centro della stanza. Con venticinque fuochi ed un frigo a sei sportelli. E sempre pieno. E sempre senza ditate all'altezza della maniglia e già che ci siamo anche ad altezza ditate di bimbo.
Ho sempre desiderato un bagno con la jacuzzi e un marito in libertà vigilata. E mi ritrovo con un marito onesto e una vasca senza nemmeno una tenda, ché si bagna sempre per terra perché due cristi alti più di un metro e ottanta ovviamente dove la mandano l'acqua se non per terra? E mica c'ho l'aiuto regista delle casalinghe disperate che mi pulisce il pavimento prima dell'inizio delle riprese!
Voglio essere anch'io una casalinga disperata! Ne ho pieno diritto. Lavoro come loro, smazzandomi tutta casa da mane a sera. Laddove però, cinque minuti dopo è tutto di nuovo da rifare.
Facci sognare America.
Facci sognare belle donne casalinghe con tanti soldi e giardini sempre a posto.
I vote for you.
La seconda serie, intendo.
Anche se non ci sono stati i titoli di coda.
Per noi poveracci che non possediamo sky, è finita ieri sera la disperazione delle casalinghe.
E' finita con un mega-riassunto. Con il racconto dell'arrivo di ognuna delle protagoniste nel ridente fazzoletto di terra dove ancora abitano. Parallelismi tra il giorno dell'arrivo e il giorno presente. Tentativi di ringiovanire attrici di una quattordicina d'anni. Non facile, ammettiamolo.
Ma, insomma, ecco, ci hanno lasciato semi per lo sviluppo futuro. Come predica ogni corso di sceneggiatura che si rispetti.
E adesso passerà un anno ancora, prima che possiamo rivedere le nostre eroine, un po' sfigate - ammettiamolo, ma pur sempre così affascinanti.
E mi piace perché sono veramente disperate. Senza una direzione. Senza un senso. Senza qualcuno che le aiuti nel momento di difficoltà.
Eppure così umane. Così come noi. Oddio, certo molto più attraenti. Ma questo fa parte del gioco.
Così sempre senza un uomo eppure così scopabili.
Così sempre piene di pacchi della spesa eppure sempre a cena fuori.
Così amiche l'una dell'altra eppure così invidiose.
Così sempre a mangiare grossi vasi di gelato, eppur sempre così magre.
Così occupate ché nella loro cucina non c'è mai un capello fuori posto. Il petto di pollo non sporca la loro macchina del gas. Forse il loro pollo non ha nemmeno le ali.
Ma io ho sempre desiderato una cucina come quella che anche la più sfigata e senza un soldo ha. Pulita come uno specchio. Col bancone al centro della stanza. Con venticinque fuochi ed un frigo a sei sportelli. E sempre pieno. E sempre senza ditate all'altezza della maniglia e già che ci siamo anche ad altezza ditate di bimbo.
Ho sempre desiderato un bagno con la jacuzzi e un marito in libertà vigilata. E mi ritrovo con un marito onesto e una vasca senza nemmeno una tenda, ché si bagna sempre per terra perché due cristi alti più di un metro e ottanta ovviamente dove la mandano l'acqua se non per terra? E mica c'ho l'aiuto regista delle casalinghe disperate che mi pulisce il pavimento prima dell'inizio delle riprese!
Voglio essere anch'io una casalinga disperata! Ne ho pieno diritto. Lavoro come loro, smazzandomi tutta casa da mane a sera. Laddove però, cinque minuti dopo è tutto di nuovo da rifare.
Facci sognare America.
Facci sognare belle donne casalinghe con tanti soldi e giardini sempre a posto.
I vote for you.
martedì, febbraio 06, 2007
Ho un vuoto di senso
Un lettore attento mi ha fatto sapere in privato che, mentre prima veniva sul mio blog per farsi due risate, adesso si dà mazzate sugli attributi. Ovviamente il maschio in questione si è espresso molto più volgarmente. Ma io sono superiore e mi accingo a sfracassarlo ulteriormente.
Sono tre giorni che medito.
Sì, insomma, intendiamoci non come uno stilita o un bonzo o anche solo uno yogi.
Medito su un film (anch'esso non proprio recentissimo, ma con il nuovo megascreen riesco a vedere tutto ciò che non ho visto in un paio d'anni).
Per quello che sto per dire, non mi prendete, per favore, per quella femminista che magari sono stata tanti anni fa, ma che adesso è mitigata nelle sue rivendicazioni almeno in maniera inversamente proporzionale all'età.
Tutti, tutto sommato, abbiamo mollato.
Mollato i nostri ideali, i nostri sogni, i nostri amici, i nostri uomini/donne.
Mollare non è una cosa semplice, nonostante quello che pensi il mollato.
L'ultima volta che io ho mollato un uomo (e diciamolo che ormai si perde nella notte dei tempi) sono restata da sola per un paio d'anni. E' vero che sono anche andata a vivere a 1400 chilometri di distanza e certo aiuta. Magari se fossi rimasta a Roma ci avrei impiegato 10 anni a smaltire la sbornia.
Perché non è facile guardare qualcuno negli occhi, qualcuno che si è amato - diciamo - per un numero considerevole di anni, immensamente proporzionale a quelli vissuti in terra, guardarlo negli occhi - dicevo - e comunicargli la fine di questo amore. Non è facile per niente. Perché si continua ad amare ciò che si è conosciuto. Si resta feriti anche con il coltello in mano. Le immagini dell'altro, della sua caduta, restano impresse nelle tue pupille come su carta foto. Rovesciate. E' l'altro e non sei tu. Ma in qualche modo sei anche tu. Che sei stato sconfitto, che hai perso, che hai abbandonato la partita.
Il vostro status è diverso perché tu ti sei preso la responsabilità. La responsabilità di tagliare la corrente. Anche se lo fai guardando l'altro negli occhi. Quello che è diventato altro da te. Altro da voi.
Anche se il coraggio di troncare è pari almeno a quello che ha l'altro di chiedere "perché?", col presupposto di voler ascoltare la risposta.
Il perché del protagonista de "I giorni dell'abbandono" è un vuoto di senso. Chiede tempo per riempirlo, quel vuoto di senso.
E per riempirlo con cosa? - direte voi.
E indovinate! - rispondo io.
Per riempirlo di quella cosa che profuma di rosa ma rosa non è.
La cosa terribile di quest'uomo, che ha coraggio di troncare dieci anni di matrimonio con due figli senza una spiegazione che non sia questo "vuoto di senso", è proprio il modo in cui egli nega qualsiasi altra spiegazione. Non prevede che sua moglie possa avanzare qualche perplessità, qualche domanda, qualche obiezione. Lei obietta, lui prende la porta e se ne va. Con il suo vuoto di senso in tasca. Senza voltarsi indietro. Senza pensare ai figli, che pure lui ha contribuito a fare e - presumo - ad educare. Lasciando a lei l'onere delle spiegazioni, delle giustificazioni, e anche del politically correct per coprire le spalle ad un padre che lascia la famiglia senza voltarsi indietro ma che deve comunque essere difeso agli occhi dei figli perché resterà sempre il padre.
Il vuoto di senso è di fronte a quest'enorme responsabilità che abbiamo quando mettiamo al mondo un'altra vita? O di fronte alla cellulite della nostra donna?
Non uno dei due casi è più nobile dell'altro.
Ma quello che chiede l'altra parte è sapere.
Chiede la dignità della presenza.
Chiede la responsabilità delle azioni.
E non mi venite a dire che anche le donne se ne vanno. Lasciando basiti marito e figli. Senza una spiegazione.
Voglio contarle, quante sono. Queste che non si voltano indietro. Che non si strappano le trippe di dolore.
E lo voglio dire. Adesso lo dico. Sì, lo dico e poi tutti i maschi lettori mi si scaglieranno contro: mancano le trippe al maschio col vuoto di senso. Quell'interiore senso di responsabilità che tanto spesso loro identificano con i loro attributi sessuali, beh, in un caso del genere, e nei molti casi del genere che si verificano nel nostro triste mondo, a loro manca o comunque scompare completamente in maniera immensamente proporzionale a quanto è presente nella loro compagna, in quella che avevano scelto come compagna di vita.
Il coraggio di guardare l'altro negli occhi. E dirgli che è finita. E spiegargli perché.
Questo è il dovuto. Nulla di più e nulla di meno.
Tutto il resto si sistema. Col tempo, col dolore, con le giuste lacrime.
venerdì, febbraio 02, 2007
Dissolvenze
Ieri sono stata riportata indietro nel tempo. Alle mie letture universitarie. Quelle che ti regalano la sensazione di conoscere tutto. Che ti danno le chiavi per aprire porte, anche se solo molto dopo scoprirai che non portano molto lontano. Quelle che conservano un posticino dentro, tutto per loro. Per sempre.
Gli americani pagarono per conoscere le abitudini culturali dei giapponesi. Diciamo che fu in qualche modo il prodromo allo sganciamento delle bombe atomiche. Con buona pace dell'antropologa Ruth Benedict, che scrisse su commissione "Il crisantemo e la spada" (1944), probabilmente ignara dello scopo finale.
Ella rappresenterà, anche se con un punto di vista inevitabilmente americano, la cultura giapponese del dono e i modelli di educazione cui erano sottoposti i giovani giapponesi, disvelando attraverso di essi la profondità delle radici comportamentali di un intero popolo. Per la prima volta lo sguardo democratizzatore americano penetrava l'inafferrabile cultura giapponese. Distruggendola, non solo simbolicamente, quel 6 agosto del 1945.
"Memorie di una geisha", film americano del 2005, vorrebbe mostrarci la cultura giapponese fatta di non-detti, di riservatezza mista a perfezione estetica. Parlo del film perché non ho letto il romanzo omonimo, da cui presumo sia tratta la storia.
Al di là dell'opulenza di costumi e della bellezza degli attori (fattore che supera la soggettività in alcuni sublimi momenti) manca, secondo me, il travaglio spirituale proprio del ruolo della geisha, ridotto in alcuni momenti a mera narrazione di accadimenti. Manca un'appropriata contestualizzazione all'interno di una società dalle abitudini millenarie e per questo non riducibile agli esigui schemi della molto più giovane cultura americana.
Ad esempio, una giovane e poco talentuosa geisha si trasforma in pochissimo tempo in una prostituta per soldati americani. Inconcepibile deriva per una donna che per lunghi anni è stata formata alla disciplina dell'okiya (la dimora dove alloggiavano ed erano istruite le maiko per diventare geishe).
La visione americana riduce tutto ad una questione di soldi.
Non conta la bellezza, la disciplina della cortesia, del dono.
Contano solo i soldi.
Chi c'è c'è.
I giapponesi sanno che i soldi sono importantissimi, ma non sono la dote che nobilita l'uomo nel suo passaggio terreno.
Questo per gli americani è inconcepibile. Inconcepibile che un uomo possa giovarsi della presenza di una donna e deliziarsi dalle sue grazie e non per fare sesso con lei.
Io non sono una profonda conoscitrice della cultura giapponese, ma certo la magnificenza di panneggi e paesaggi in questo film viene oscurata dalla profonda manipolazione del senso ultimo di una cultura millenaria. Dissolvendone il valore.
Come per tutte le cose cui si toglie il nome.
Gli americani pagarono per conoscere le abitudini culturali dei giapponesi. Diciamo che fu in qualche modo il prodromo allo sganciamento delle bombe atomiche. Con buona pace dell'antropologa Ruth Benedict, che scrisse su commissione "Il crisantemo e la spada" (1944), probabilmente ignara dello scopo finale.
Ella rappresenterà, anche se con un punto di vista inevitabilmente americano, la cultura giapponese del dono e i modelli di educazione cui erano sottoposti i giovani giapponesi, disvelando attraverso di essi la profondità delle radici comportamentali di un intero popolo. Per la prima volta lo sguardo democratizzatore americano penetrava l'inafferrabile cultura giapponese. Distruggendola, non solo simbolicamente, quel 6 agosto del 1945.
"Memorie di una geisha", film americano del 2005, vorrebbe mostrarci la cultura giapponese fatta di non-detti, di riservatezza mista a perfezione estetica. Parlo del film perché non ho letto il romanzo omonimo, da cui presumo sia tratta la storia.
Al di là dell'opulenza di costumi e della bellezza degli attori (fattore che supera la soggettività in alcuni sublimi momenti) manca, secondo me, il travaglio spirituale proprio del ruolo della geisha, ridotto in alcuni momenti a mera narrazione di accadimenti. Manca un'appropriata contestualizzazione all'interno di una società dalle abitudini millenarie e per questo non riducibile agli esigui schemi della molto più giovane cultura americana.
Ad esempio, una giovane e poco talentuosa geisha si trasforma in pochissimo tempo in una prostituta per soldati americani. Inconcepibile deriva per una donna che per lunghi anni è stata formata alla disciplina dell'okiya (la dimora dove alloggiavano ed erano istruite le maiko per diventare geishe).
La visione americana riduce tutto ad una questione di soldi.
Non conta la bellezza, la disciplina della cortesia, del dono.
Contano solo i soldi.
Chi c'è c'è.
I giapponesi sanno che i soldi sono importantissimi, ma non sono la dote che nobilita l'uomo nel suo passaggio terreno.
Questo per gli americani è inconcepibile. Inconcepibile che un uomo possa giovarsi della presenza di una donna e deliziarsi dalle sue grazie e non per fare sesso con lei.
Io non sono una profonda conoscitrice della cultura giapponese, ma certo la magnificenza di panneggi e paesaggi in questo film viene oscurata dalla profonda manipolazione del senso ultimo di una cultura millenaria. Dissolvendone il valore.
Come per tutte le cose cui si toglie il nome.
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