martedì, dicembre 27, 2011

Mondi meravigliosi

Stasera ho rivisto Amélie Poulain con le mie figlie. Dieci anni fa, quando lo vidi per la prima e unica volta feci la superiore, figurarsi se mi emozionavo davanti a tutti quei luoghi comuni, quella naiveté messa in piazza pretestuosamente, quel pensare prima agli altri senza essere in grado di badare a se stessi, quegli stereotipi di buono e cattivo, di giustiziere dei derelitti, di deus ex-machina nell'impossibilità assoluta di determinare alcunché. Oggi sono molto più scossa di allora. Oggi penso che nella vita si dovrebbe osare di più. Oggi penso che il primo bacio dovrebbe essere all'angolo della bocca e non lingua a lingua. Oggi penso che vorrei che qualcuno si occupasse di me come Amélie fa con i derelitti che incontra. Non perché io mi senta bisognosa. Ma perché avere qualcuno che si preoccupa per te e di te si occupa ti fa sentire vivo, ti fa smuovere dal torpore, ti fa agire e reagire improvvisamente di più. Perché poi la quotidianità ci fa perdere la meraviglia, ci fa perdere lo slancio e ci ingrigisce molto più di quanto desidereremmo. E vedere mia figlia che urlava "lo sapevo, ora si baciano, che schifo!" mi ha fatto pensare a quante cose deve ancora vivere e come vorrei che le vivesse con la meraviglia che le ho visto oggi negli occhi e che ho ritrovato - forse si, forse ho solo trovato, visto che me l'ero persa - negli occhi di Amélie.

sabato, dicembre 17, 2011

Quattro casalinghe

Tutte ci svegliamo spesso già stanche, il sonno non ci ristora sempre. Tutte viviamo a volte una quotidianità schiacciante nella sua routine e tutte abbiamo pensato almeno una volta (per quanto mi riguarda sicuramente più di una volta!!!) di strangolare il nostro uomo con le nostre dolci manine, magari appena smaltate. Tutte abbiamo desiderato, almeno una volta, di sbattere via il moccioso che avevamo fra le braccia, per stanchezza, insofferenza, disgusto o fatica. Ma pochi/e hanno realizzato veramente uno di questi desideri. La solitudine, quella vera, quella in mezzo alla gente, è la chiave di tutto. Allora si può essere soli anche indossando l'ultimo tailleur alla moda con le labbra laccate di rosso dior; persino con due bambini piccoli e un marito; si può essere soli perché da anni non si parla con il proprio figlio perché il suo cuore e le sue labbre sono chiusi oppure con il proprio marito che ha scelto di non dormire più con noi perché non ha più niente da dirci; si può essere soli perché si hanno suocera, figlia e nipotino da accudire e nessun uomo a scaldare le nostre notti. Ma si può essere soli anche da proprietari di night club e bische clandestine, soli perché una notte di tanti anni prima abbiamo ucciso una donna infilandole le nostre mani nelle viscere e quello è stato l'unico momento di assoluta estasi della nostra vita. Soli perché abbiamo creduto nel miraggio del ricco Giappone abbandonando una terra povera ma ospitale per ritrovarci  a dormire su un letto a castello facendo i turni di notte in una fabbrica di confezioni di alimenti. E quando tutte queste solitudini si incontrano è anche il momento di fare i conti con se stessi. Anche se spesso i conti non tornano. E infatti tutte queste vite finiscono a carte quarantotto tra scene splatter di sangue schizzato dovunque, cadaveri di persone ignote dissezionati in vasche da bagno casalinghe, miraggi di guadagni insperati, laddove si crede che i soldi risolvano tutti i problemi. Quando invece è inevitabilmente la morte che tira un tratto di penna su vite inutili e prive di significato perché irrimediabilmente incentrate su se stesse. La cosa veramente impressionante, nella storia di questo libro, è che nessuno agisce per un interesse superiore. Ognuno coltiva il proprio orticello e a questo scopo vive e muore.
Si potrebbe pensare che sia un libro sulla condizione femminile. 
Ma io credo che sia un libro sulla condizione umana. Ormai poco attenta ai sentimenti e sempre più ancorata all'apparenza e al profitto. In una cornice culturale tipicamente giapponese si ritrovano quegli universali che ci fanno così umani e così mortali. E tutti maledettamente simili.



lunedì, dicembre 05, 2011

Lacrime sul Belpaese

A me è capitato di piangere a lavoro. Ricordo una volta in particolare, mi trovavo a gestire una situazione estremamente stressante, con obiettivi stringenti da raggiungere, con un cliente cui rendere conto anche dello spostamento dell'aria in ufficio, con una serie di riunioni molto impegnative e anche discretamente formali e poi, come se non bastasse ero anche incinta. Quindi forse, la goccia che fece traboccare il vaso non era nemmeno estremamente rilevante. Ma rilevava per me. Certo non reggevo sulle mie spalle le sorti dell'azienda, ma insomma ero comunque in una posizione in cui piangere non sarebbe stato ritenuto all'altezza della situazione. E infatti mi trattenni e mi tratteni fino a che mi scappò da piangere durante la pausa caffè, assolutamente off topic rispetto all'evento in sé. Ed il mio capo dell'epoca, del tutto scevro da ogni sentimentalismo, maschio in carriera con femmina a casa che badava ai rampanti pargoli perfetti, invece di biasimarmi, mi fece una carezza sulla gota. Credo che con quel gesto volesse comunicarmi la sua comprensione, forse anche l'invidia di non potersi mettere a piangere lui, mentre forse gli avrebbe fatto anche bene. E quel gesto taumaturgico ebbe su di me effetto guarigione immediata, un po' per la catarsi delle lacrime, un po' perché mi sentivo compresa nella situazione e nei sentimenti. Credo che sia giusto riflettere sul perché gli uomini non piangano in pubblico, o si sforzino di non farlo. Perché invece - a mio parere - mostrare la propria sensibilità non è una diminutio, è carattere proprio dell'umanità, è la prima cosa che si fa quando si nasce, tanto che se un neonato non piange è giudicato un brutto segno. E il piangere in pubblico della ministra, il pubblico totale globale del nostro Belpaese, è stato da molti giudicato sconveniente, ma io penso che sia grande segno di umanità e di sensibilità, per stra-abusate che siano codeste parole. In un paese in cui soldi e fica sono stati in primo piano per decenni, forse è il momento di piangere. Ed il fatto che sia una donna a farlo, indica quanto le donne siano più sicure della propria personalità per permettersi di fare una cosa così intima in pubblico. 
La donna che partorisce e allatta in pubblico non può non piangere in pubblico. 
Forse un futuro diverso per il paese passa anche da qui.